NATURA E CULTURA 7
L'area archeologica di Egnazia
Percorrendo la strada provinciale che unisce Torre Canne a Monopoli, a meno di un chilometro da Savelletri si entra nella più grande area archeologica della Puglia.
Qui, infatti, si incontrano le millenarie vestigia di Egnazia, città ricordata da Strabone (VI, 3, 7-8, 282-283), da Plinio (Nat. Hist. II, 204 e III, 102) ed immortalata nei versi di Orazio (Sat. I, 5). Il suo primo insediamento umano risale all'età del bronzo (XVI-XII secolo a.C.), con gruppi di capanne sparse sulla costa e verso l'interno. La parte più importante del nucleo capannicolo si estendeva sulla collinetta dell'acropoli, ed era difesa da una cinta muraria di cui resta un piccolo setto composto da pietre connesse a secco. Dopo un periodo di abbandono (XI-IX secolo a.C.), il sito venne nuovamente abitato, e cominciò a svolgere un ruolo di snodo per i collegamenti fra la Grecia e l'entroterra pugliese: un tratturo univa il porto egnatino a Monte Sannace, grande centro della Peucezia situato nel territorio dell'odierna Gioia del Colle. La civiltà di Gnathia (così la città era nota nell'antichità), inserita in una più larga cultura iapigia, andò progressivamente a specificarsi quale realtà messapica a partire dal VI-V secolo a.C.. I rapporti con la colonia spartana di Taranto, distante poco più di una sessantina di chilometri, pur essendo caratterizzati da reciprocità culturale soprattutto fra il V e il III secolo a.C., non furono sempre facili per gli egnatini, che conservarono la propria indipendenza dalle mire espansionistiche tarantine. Successivamente, con le due campagne del 267-266 a.C., i Romani sottomisero le popolazioni della Messapia, inaugurando una lunga dominazione. Nella tarda Repubblica (I secolo a.C.) Egnazia beneficiò del patronato di Marco Vipsanio Agrippa, braccio destro di Ottaviano Augusto, che monumentalizzò la città e la dotò di un nuovo bacino portuale. Attraverso la via Traiana, Egnazia fu connessa ai traffici socio-economici dell'impero romano, assurgendo a scalo collaterale a quello di Brindisi, il più importante approdo mediterraneo dell'Urbs. La permeabilità al flusso di genti orientali portò all'assunzione prima dei culti asiatici di Cibele, Attis e della Dea Syria, e poi favorì la precoce diffusione del cristianesimo: dagli atti dei sinodi indetti dal papa Simmaco I nel 501, 502 e 504 d.C., si conosce l'esistenza del vescovo Rufentius egnatinus. Il saccheggio e la distruzione operata da Totila, re dei Goti, nel 545 d.C., non impedì a Egnazia di rifiorire almeno fino all'VIII secolo d.C., quando cominciò a decadere, passando fra i possedimenti longobardi del ducato di Benevento. Intorno al Mille, l'antica Gnathia verrà definitivamente abbandonata.
Il Museo Archeologico Nazionale. Il Museo di Egnazia è sorto agli inizi degli anni Settanta con l'intervento finanziario della Cassa del Mezzogiorno. Ospita attualmente una mostra didattica che serve all'introduzione alla storia e alla topografia del sito, con un'ampia documentazione grafica e fotografica, unita a vetrine e teche contenenti materiale archeologico reperito in loco: fra tutti, si ammira la magnifica testa in marmo del dio Attis, databile alla prima metà del II secolo d.C., e il celebre mosaico delle Tre Grazie, del III secolo d.C.. Nei padiglioni museali sono esposti anche alcuni splendidi reperti musivi, che scandiscono l'itinerario, opportunamente corredato da pannelli didascalici, fra i “Tappeti di pietra - I mosaici di Taranto romana”. In un'altra ala dell'edificio moderno sono visibili gli oggetti protostorici della mostra “Documenti dell'Età del Bronzo”, con i frutti delle ricerche operate lungo il versante adriatico pugliese. Orario di visita: 8.30-13.30; 14.30-19.30. È in programma una apertura serale in estate.
L'itinerario consigliato. A parte l'acropoli, che costituisce un nucleo urbano pluristratificato visitabile autonomamente, è consigliabile seguire un itinerario cronologicamente ordinato dai monumenti più antichi a quelli più recenti, attraverso i tre periodi fondamentali della storia di Egnazia: messapico, romano e paleocristiano.
I monumenti messapici. La visita può pertanto cominciare dalla cosiddetta necropoli occidentale, posta alle spalle dell'odierno Museo Nazionale. Si tratta di una sezione dell'antica zona cimiteriale, venuta alla luce una ventina d'anni fa, composta da 60 sepolture messapiche impiantate fra il V e il II secolo a.C.. Ricavate nella roccia con taglio regolare, le tombe sono suddivisibili nei tre modelli “a fossa” (anche dette “a pseudosarcofago”), “a semicamera” e “a camera”, in rapporto con il differente prestigio sociale e con il livello di ricchezza dei titolari.
Le tombe a fossa, spesso riunite all'interno di una controfossa comune, imitavano sarcofagi incassati a una maggiore profondità rispetto al piano di calpestìo, ed erano tagliate a misura del defunto, per essere coperte da lastroni litici. Le tombe a semicamera, talvolta intonacate e dipinte, erano sepolture familiari di dimensioni piuttosto imponenti, chiuse dall'alto mediante grandi blocchi litici posti di piatto. Spesso si effettuava sul fondo una fossetta per ammucchiarvi i resti ossei delle deposizioni più antiche, creando spazio per gli altri cadaveri. Le tombe a camera erano ipogei sotterranei costituiti da una cella funeraria, un vestibolo a cielo aperto e una scalinata intagliata nel banco tufaceo. Nella maggior parte dei casi le stanze sepolcrali erano intonacate e dipinte sia con motivi generici, sia con figurazioni allusive alle credenze religiose e funerarie della gens cui il sepolcro apparteneva. La parte scavata della necropoli occidentale ospiterà in seguito 35 tombe ad incinerazione (I-II secolo d.C.) proprie della tradizione romana, e 45 tombe paleocristiane (III-IV secolo d.C.) ricavate negli strati superficiali del banco tufaceo, di forma approssimativamente rettangolare, dotate di un rialzo poggiatesta e coperte da semplice terra, con il rinforzo di uno strato di sassi e schegge litiche gettate senza ordine sulla parte superiore. Inoltre, nel Medioevo due tombe a camera messapiche, poste sul limite occidentale della necropoli, verranno adibite ad abitazione, imitando l'habitat rupestre circostante.
Da non perdere alcuni fra gli ipogei sotterranei meglio conservati di Egnazia, databili fra il IV e il III secolo a.C.: la Tomba del Melograno, cui si accede dal piano inferiore dei locali museali, chiusa da due eccezionali battenti monolitici ancora oggi ruotanti su cardini, e costituita da una cella funeraria riccamente adornata con motivi architettonici e vegetali, fra cui rami d'edera e le melegrane simbolo della rinascita nell'Oltretomba; la Tomba della Medusa (anche detta Labate), in posizione sud-orientale rispetto al museo, che presenta una banchina deposizionale ricavata nella roccia, ai piedi delle pareti intonacate e dipinte in rosso e giallo, in cui si stagliano un oscillum tondeggiante decorato a testa di Medusa, un elmo a pileo, una pseudopisside, una corona funebre con bende ricadenti e alcune ghirlande stilizzate; e l'eccezionale Tomba del Pilastro, a nord-est del museo, composta da due camere collegate da un breve corridoio coperto da lastroni: la cella principale è dotata di un sostegno (risparmiato per esigenze statiche) e di una nicchia che si apre sulla parete di fronte all'entrata, corredata da un cancelletto in pietra, mentre solo in un secondo momento, nel III secolo a.C., fu aperta l'altra stanza, scavando un ulteriore vano quadrangolare, ornato da un fregio pittorico marmorizzante sul soffitto ad un angolo della camera, per ottenere l'effetto del tapis tendu (tappeto tessile).
Ad epoca messapica appartiene anche il cosiddetto muraglione, che costituisce il lembo superstite di una possente cinta muraria in opera isodoma (a grossi blocchi perfettamente squadrati) e a doppia cortina con terrapieno interno, che per un'altezza di circa sette-otto metri e uno sviluppo di oltre due chilometri in lunghezza racchiudeva la città dalla parte di terra. L'opera difensiva ha avuto due fasi di realizzazione: la prima è databile nell'ambito del IV secolo a.C., mentre la seconda, cui è riferibile il tratto ancora oggi visibile a nord-est dell'area archeologica, risale a un periodo non anteriore al III secolo a.C., allorché la vecchia fortificazione venne ristrutturata e ampliata, in probabile coincidenza con gli eventi bellici cagionati dall'arrivo del re Pirro e dell'esercito epirota in Puglia.
Nel giro del recinto murario egnatino sono state riconosciute finora almeno due porte d'accesso alla città: una era situata a nord, nel punto in cui l'odierna strada provinciale si immette nell'area dell'antica Egnazia, ed era fiancheggiata da una struttura a base quadrata, da identificare con una torre; l'altra era ubicata a sud-ovest del territorio urbano, ed era dotata di due contrafforti, con un'apertura massima di m. 2,80. Entrambe dovevano essere del tipo a propugnaculum o Scea, e cioè oblique rispetto all'andamento delle mura, in maniera tale da poter respingere più facilmente il nemico, costretto a passare all'interno del corridoio d'ingresso. Una terza porta potrebbe essere individuata in un'apertura del recinto murario riscontrabile a sud della città, in una zona non ancora indagata archeologicamente, in linea con quanto preliminarmente rilevato da Ludovico Pepe, uno storico locale, nel 1882.
I monumenti romani. Dopo aver lasciato la zona del museo e della necropoli, si prosegue il tragitto a piedi in direzione sud-est e si entra nell'area urbana della Gnathia romana. È preferibile non seguire il percorso in brecciolina, ma tagliare subito sulla destra per raggiungere il magnifico criptoportico, un corridoio semi-interrato a quattro bracci trapezoidali, parzialmente scavato nella roccia, con volta a botte in opus caementicium e murature di rinfianco della scalinata d'ingresso in opus reticulatum. Costruito nel periodo di passaggio dalla Repubblica al Principato (fine I secolo a.C.), fungeva in origine da poderosa costruzione cava di un quadriportico ionico che ne ripeteva in superficie lo schema planimetrico. Il porticato superiore doveva recingere probabilmente un'area santuariale, che aveva nel peribolo sotterraneo un comodo e spazioso ambiente di servizio per gli addetti e le pratiche del culto (deposito per la custodia di suppellettili o ex voto, ricovero dei pellegrini). Con la rifondazione agraria avviata dall'imperatore Vespasiano nell'ultimo trentennio del I secolo d.C., il criptoportico fu trasformato in horreum pubblico per l'immagazzinaggio di cereali o altri prodotti da commercializzare. In questo frangente venne aperta anche una seconda rampa di scale per agevolare le operazioni di carico e scarico della merce. Il magazzino, collocato in un settore urbano distante dal porto e dal cuore dei traffici, restò in funzione fino alla seconda metà del II secolo d.C., quando divenne un semplice scarico per rifiuti.
Dirigendo alle pendici dell'acropoli egnatina, si incontra una fornace a pianta subcircolare, con praefurnium (corridoio di accesso) allungato. È da immaginare completata da una copertura emisferica e da un piano intermedio forato, per posarvi i manufatti da sottoporre a cottura. Venne impiantata su una precedente sepoltura messapica, di cui si nota sul fondo un lastrone di copertura, iscritto lateralmente con l'epigrafe TABAPA (sacerdotessa). Segue la famosa via Traiana, tratto urbano dell'arteria che collegava Benevento con Brindisi: orientata in direzione est-ovest, è pavimentata con basoli poligonali in calcare e fornita di paracarri. Venne realizzata dopo la vittoria dell'imperatore Traiano in Dacia (odierna Romania), fra il 108 e il 111 d.C.: rispondeva alle esigenze di creare un collegamento più breve e diretto, rispetto all'antica via Appia, fra Roma e il fondamentale snodo portuale di Brundisium. Si tratta di una via silice strata, che nel percorso pugliese aveva finito per inglobare la tardorepubblicana Minucia, e cioè la precedente via glarea strata ricordata da Cesare (Bel. Civ. I, 24) e Orazio (Ep. I, 18, 20), menzionata da Cicerone (Ad. Att. IX, 6, 1) e attestata in Strabone (VI, 3, 7).
Fra i grandi edifici pubblici che si estendono in successione sul fianco del selciato, si riconosce una tipica basilica civile (fine I secolo a.C.), in cui si amministrava la giustizia e si trattavano gli affari. A pianta rettangolare, con 4x8 colonne di stile ionico, e pavimento originario in marmo sinnadico-pavonazzetto e nuvolato giallo, è caratterizzata da pilastri rettangolari di sostegno sui lati di sud-est e sud-ovest, dove è ipotizzabile il prospetto principale e l'ingresso, con affaccio sul foro della città, ancora da scavare. Fra il III ed il IV secolo d.C. venne trasformata da basilica forense in chiesa cristiana: l'originaria scansione interna del colonnato le diede un assetto planimetrico a tre navate, secondo un tipico schema paleocristiano, con accesso spostato sul lato breve dalla parte della via Traiana, di fronte al presbiterio di cui si notano ancora dei blocchi litici in situ.
In continuità con la basilica civile si trova un importantissimo santuario dedicato alle divinità orientali: presso la massicciata stradale moderna sono infatti i resti di un ambiente decorato da un mosaico pavimentale (III secolo d.C., esposto nel museo), con un motivo di contorno a squame embricate, al cui centro si inseriva il grande emblema (medaglione) polìcromo recante l'immagine classica delle Tre Grazie (Aglaia-Splendore, Talia-Abbondanza e Eufrosine-Gioia), divinità dispensatrici di armonia e bellezza, che sotto forma di Ninfe erano oggetto di un culto a carattere misterico in alcuni santuari della Tracia. Da qui, tramite una soglia si accede sulla sinistra a uno spazio trapezoidale collocato davanti al tempio di Cibele, la Magna Mater, in cui è inserito un lavacro parallelepipedo, foderato da malta idraulica. L'ambiente, ora parzialmente coperto da muri di epoche successive, doveva servire all'effettuazione del rito della lavatio, con il quale a fine marzo si rievocava il bagno lustrale cui era stata sottoposta la statua della dea al momento del suo arrivo a Roma (Ovidio, Fasti IV, 337-340). Il contiguo tempietto della Magna Mater è a pianta quadrangolare allungata, con una soglia tuttora riscontrabile, e possedeva in origine due colonne in antis di ordine dorico. Inserito organicamente nel Phrygianum (il santuario degli dei della Frigia, regione micrasiatica) egnatino all'epoca del patronato di Marco Vipsanio Agrippa sulla città (circa il 40 a.C.), il tempio accoglieva la statua della Gran Madre. Confinante ortogonalmente con il vano della lavatio è il sacello del dio Attis, un'aula rettangolare, ricavata nella porzione terminale di una stoà (portico) a squadra, dopo averne murato il colonnato. Vi si accedeva da sud, tramite una soglia calcarea. Di fronte all'entrata è posto un altare litico, definito sulla faccia anteriore da un'iscrizione dedicatoria (nel magazzino del museo) di Flavia Cypare, sacerdotessa della Mater Magna et Syria Dea. Sulle altre guance del basamento sono scolpiti in rilievo alcuni strumenti musicali: un flauto diritto e uno traverso (lato ovest), un timpano (lato nord), due cembali (lato est). Realizzato in età augustea, il sacello doveva servire per le celebrazioni delle Attideia, svolte dal 15 al 27 di marzo in onore di Attis, con le processioni delle cannophoria e delle dendrophoria. Gli strumenti musicali effigiati sull'ara erano peculiari del culto frigio: avevano infatti la funzione di provocare un'atmosfera di teomixia (l'unione del divino con l'umano) e di acceso entusiasmo religioso, con danze frenetiche che si univano alla pratica di sciogliere i capelli roteando il capo all'indietro, detta oklasma: ciò conduceva a un delirio mistico-orgiastico, al culmine del quale coloro che intendevano entrare nel sacerdozio frigio dei Galli dovevano assimilarsi ad Attis, evirandosi con un coccio tagliente o con una pietra acuminata. Timpani e cembali erano oggetti necessari anche per determinati riti misterici, nel corso dei quali l'iniziato doveva «...mangiare dal timpano e bere dal cembalo...», per ammaestrarsi nei misteri della religione e divenire così mystes di Attis. Ma l'area santuariale del Phrygianum comprendeva altresì una piazza, il campus Magnae Matris, a forma di quadrangolo irregolare, con pavimento in terra battuta, che aveva sul versante orientale dei piccoli ripostigli cultuali, vasche per l'acqua e basi di statua in opus testaceum rivestito di stucco: una di queste doveva sorreggere il simulacro di Attis (la cui testa e mano con syrinx in marmo, di età adrianea, sono esposte nel museo).
Mediante un largo ingresso, monumentalizzato sui lati da grossi basamenti turriformi, il campus Magnae Matris è collegato a ovest con il teatro sacro, un ampio recinto di forma ellissoidale (conosciuto col nome di “anfiteatro”), dotato di pareti in opus africanum ancora coperte in alcuni punti da tracce evanide di intonaco e pittura. I muri dell'edificio teatrale sono coronati alla sommità esterna da un camminamento anulare lastricato, percorribile per lunghi tratti. Sul versante nord-orientale è una tribunetta in pietra, mentre su quello sud-occidentale sono riconoscibili i vomitoria per l'ingresso del pubblico. La scena è collegata con il campus Magnae Matris e con piccoli vani di servizio ricavati nel terrapieno, ed è connessa a ovest con un largo vestibolo chiuso. Il teatro sacro venne costruito nel I secolo a.C., sui resti di una precedente struttura per spettacoli o adunate pubbliche: qui gli attori davano vita alle rappresentazioni di Plauto o Terenzio e alle pantomime caratteristiche del culto frigio, nel corso dei Ludi Megalenses, gli allestimenti teatrali essenziali per la celebrazione delle Megalensia (Liv. XXXV, 54), le feste patrizie che ogni anno si svolgevano in onore di Cibele, dal 4 al 10 aprile. Con l'avvento del cristianesimo ad Egnazia, e la conseguente cancellazione delle pratiche cultuali pagane, il teatro sacro perse la funzione originaria: la sua parte occidentale venne rimaneggiata e colmata con materiale di spoglio, per sostenere una serie di ambienti a ridosso della via Traiana. Da quel momento, l'edificio fu destinato a semplice recinto per animali, divenendo un foro boario.
Al teatro segue una piazza trapezoidale, attualmente fruibile per circa metà dell'ampiezza, poiché il resto non è stato ancora scavato e giace in proprietà privata. È circondata da un portico in stile dorico, pavimentata con grossi lastroni di pietra locale e caratterizzata dai resti di un suggestum (tribunetta). Venne realizzata in età tardorepubblicana (I secolo a.C.), in uno spazio precedentemente orlato da un paio di portici che furono collegati da due bracci trasversali. Erroneamente l'area era stata intesa come il foro di Egnazia. In realtà, oltre a fungere da campus ausiliario, era un luogo attrezzato per il mercato e, forse, per la vendita degli schiavi.
I monumenti paleocristiani. L'Egnazia paleocristiana è individuabile principalmente nelle chiese con i relativi battisteri. Percorrendo una delle strade ortogonali alla via Traiana, si incontra la basilica episcopale, con pianta a tre navate scandite da due file di 11 colonne e abside semicircolare. I tre ingressi sono preceduti da un nartece (portico), mentre il presbiterio balaustrato reca i segni dell'altare e del ciborio. Fu realizzata alla fine del V secolo d.C. con l'ornamento pavimentale di mosaici ad elementi geometrici e vegetali. Con la navata laterale sinistra era planimetricamente connesso un battistero nel quale il sacramento veniva amministrato per immersione. Realizzato utilizzando le preesistenti strutture di una fullonica (lavanderia), possiede una pianta rettangolare-allungata, suddivisa in tre vani giustapposti, con gli accessi posti ad est e ad ovest. Nella sala centrale, corredata da un baldacchino a quattro colonne, è inserita una doppia vasca a gradini, per gli adulti e i bambini. Gli altri due ambienti, posti simmetricamente sui lati orientale e occidentale, avevano la funzione di spogliatoio, rispettivamente per gli uomini e per le donne. Alla distruzione della basilica episcopale seguì la costruzione di un'altra chiesa paleocristiana riconoscibile sempre risalendo la cosiddetta “via delle basiliche”. L'edificio è definito icnograficamente da tre navate e altrettanti ingressi, con doppio colonnato interno e abside retrostante al presbiterio. Scoperta nel 1912-1913 dal soprintendente archeologo Quintino Quagliati, la basilica cristiana fu uno fra i primi monumenti egnatini ad essere riportati alla luce tramite uno scavo ufficiale. La sua erezione risale all'inizio del VII secolo d.C., e dovette far seguito all'abbattimento della città perpetrato da Totila, re dei Goti, nel 545 d.C.: non a caso, nella costruzione della ecclesia, l'abside finì per sovrapporsi ad una precedente carreggiata stradale, sconvolta insieme al resto dell'assetto urbano dal saccheggio ostrogoto. La chiesa fu realizzata al di sopra e trasversalmente ad un altro edificio absidato a presumibile valenza religiosa, databile al IV-V secolo d.C. in base al ritrovamento di un pavimento a finissimo mosaico geometrico.
Sul fianco esterno della navata laterale sinistra si trova un battistero a pianta quadrangolare, suddiviso in tre ambienti. Il pavimento del vano centrale è interessato da un mosaico bianco a grosse tessere, e dalle tracce di una vasca battesimale, con un lavacro circolare recintato da elementi in muratura. Vi si amministrava il rito battesimale con l'effusione dell'acqua sul corpo del catecumeno. Gli ambienti laterali alla sala centrale dovevano servire per spogliatoio e per l'espletamento del servizio liturgico, evitando così promiscuità fra i sessi e assicurando dei comodi vani per gli addetti al rituale.
L'acropoli. Determinata dal sovrapporsi dai vari livelli di frequentazione, l'acropoli egnatina conserva i resti del muro di cinta dell'insediamento dell'Età del Bronzo (XVI secolo a.C.), sul versante meridionale. Al centro della collinetta è invece un bel tempio romano periptero di ordine dorico (III-II secolo a.C.), con cella priva di partizioni interne, accesso dotato di probabile scalinata e fondazioni in opus caementicium. Ritenuto inizialmente un prodotto dell'architettura ellenistica del IV secolo a.C., venne edificato in epoca repubblicana e restaurato in età imperiale, al tempo dell'imperatore Claudio (41-54 d.C.). Sull'altura di Gnathia è ubicato anche un grande edificio quadrangolare bastionato in opera isodoma, suddiviso in vari ambienti e dotato di scale esterne per l'accesso a piani superiori. Costruito con materiale di recupero, il fortilizio è inserito nel settore di sud-ovest della fortificazione che recinge l'acropoli, e risale all'VIII secolo d.C.. Vi si può riconoscere una saal (sorta di castello) longobarda. Nell'angolo nord-est dell'edificio è ricavata una piccola cappella absidata, con pavimento in lastre di pietra e presbiterio transennato, che su un lato si è appoggiata a un precedente muro tardoantico, e sugli altri due alle pareti in opus quadratum del castello. Una porta d'accesso al pianoro dell'acropoli è infine visibile sul margine occidentale: fu creata all'epoca dell'erezione della cinta muraria altomedievale, ricorrendo al reimpiego di due battenti monolitici sottratti a qualche antico ipogeo messapico del tipo a camera. Corsi e ricorsi storici, ad Egnazia, il cui materiale lapideo è stato fino a pochi anni fa utilizzato per la costruzione dei corpi di fabbrica di Fasano, Monopoli e dintorni. Per questo, oggi, l'impressione è di una città spoglia e rasa al suolo anche dalle “depredazioni” moderne.
Egnazia sommersa. Per gli amanti dello snorkeling (nuoto a pelo d'acqua con l'attrezzatura minima di maschera e pinne) o per i sommozzatori appassionati di fotografia subacquea, Egnazia offre anche un affascinante itinerario “sommerso”. Il grande maremoto del 365 d.C., raccontato da San Girolamo, unitamente ai fenomeni di bradisismo (abbassamento o innalzamento della crosta terrestre) ed eustatismo (abbassamento o innalzamento del mare), hanno coperto di blu marino alcuni monumenti eccezionali, insieme a reperti di varia natura, che è attualmente agevole riscoprire sui fondali egnatini. Il tour marino può cominciare dall'insenatura ovest dell'acropoli: partendo da una deliziosa spiaggetta è possibile avventurarsi dolcemente verso il largo, incontrando dopo un centinaio di metri un fondale ricco di materiale anforaceo. In particolare, in una specie di avvallamento posto sulla destra, la forte concentrazione di resti di antiche anfore romane indica la presenza di un relitto, ad una profondità compresa fra i 7 e gli 8 metri, fra sabbia e qualche alga che tende a nascondere questa magnifica documentazione archeologica. Pinneggiando ancora in direzione nord-ovest, basta qualche bracciata per imbattersi nelle strutture del molo di ponente: si tratta di enormi plinti composti di cemento romano (l'opus caementicium) e allineati a formare un arco di protezione dal vento di maestro, alcuni dei quali conservano ancora intatta la struttura di rivestimento in opus reticulatum, il paramento esterno costruito a mo' di scacchiera in obliquo, con cui vennero realizzati in età augustea, alla fine del I secolo a.C..
Superato il bacino portuale, e proseguendo in direzione del cosiddetto “muraglione”, all'occhio attento non sfuggirà la notevole quantità di frammenti di vasi, unguentari e, nelle circostanze più fortunate, statuette in terracotta, disseminati lungo il tragitto che conduce ad una strada rettilinea, perfettamente ricavata nel banco roccioso, posta a 6-7 metri di profondità, non troppo distante dalla costa: potrebbe essere la carreggiata della celebre via Minucia, menzionata dal geografo Strabone nel I secolo a.C., antecedente e con andamento pressoché parallelo alla già ricordata via Traiana.
Seguendone il percorso si giunge nella zona industriale di Egnazia, ubicata a ridosso della cinta muraria e caratterizzata da parecchie fornaci: quelle meglio conservate lasciano riconoscere la tipica forma tondeggiante, dotata di praefurnium (corridoio di accesso). In queste buche millenarie, che una volta servivano a cuocere l'argilla, si sono depositati centinaia di pezzi di ceramica dal tipico colore rossiccio.
Dall'insenatura est dell'acropoli, invece, ci si può tuffare nel blu scoprendo subito un settore di necropoli messapica invasa dalle acque: qui si trovano ancora delle tombe a fossa rettangolari, risalenti al V-III secolo a.C., coperte di vegetazione acquatica. Fra resti di blocchi in marmo colorato, che veniva anticamente importato dal Nord Africa, dall'Egitto e dal Medio Oriente, si scorgono altresì alcuni tratti di mura ciclopiche: dei tagli di spianamento della roccia accolgono in effetti dei filari isodomici, accuratamente squadrati, a circa 2 metri di profondità. In posizione più orientale, si può entrare e seguire l'andamento di una specie di canale di drenaggio, scavato fra due pareti rocciose per l'altezza di un uomo e una larghezza sufficiente a giostrarvi dentro con discreta semplicità. Sul versante sinistro è visibile il braccio più corto del porto egnatino, sempre costruito con giganteschi parallelepipedi in cemento.
A questo punto, date le indicazioni di massima, ciascuno è libero di seguire il proprio istinto e l'itinerario che più gli aggrada, ma sempre con la massima attenzione a non compiere “imprese” esagerate, rispettando mare e monumenti. Al limite, i temerari potranno anche recarsi nella vicina Savelletri, e immergersi alle spalle dell'Hotel “La Sorgente”: a 2-3 metri di profondità c'è una classica “secca”, dove è naufragata ed incastrata una nave col carico di anfore della fine del IV secolo a.C., che stava certamente veleggiando su Egnazia. Ma questa è un'altra Storia...
di Redazione
24/03/2012 alle 00:00:00
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